L’importanza di imparare a cadere: che cosa dicono i ricercatori?

Come mai è così importante imparare a cadere?

Se lo sono chiesto alcuni ricercatori universitari qualche anno fa, partendo da alcune evidenze statistiche. (Chi volesse approfondire può leggere qui e qui)

Stando ai dati dell’OMS, tra i minorenni i danni da caduta rappresentano la seconda causa di morte per ferite non intenzionali. Un dato che, solo in Europa, riguarda quattordici minorenni al giorno.

Inoltre, i costi per le prestazioni sanitarie per ricoveri dovuti a cadute sono significativamente alti (circa 50 miliardi di dollari ogni anno negli Stati Uniti).

Da queste evidenze sono nati dei progetti come Safe Falls Safe Schools, che hanno visto la partecipazione del gruppo di lavoro del prof. Invernizzi della Scuola di Scienze Motorie dell’Università Statale di Milano e della FIJLKAM, settore Judo, per un coinvolgimento della popolazione scolastica.

Il merito di questi progetti è stato sia di far emergere evidenze dal punto di vista quantitativo, sia di proporre delle metodologie di lavoro e di prevenzione.

E’ interessante, per esempio, l’analisi relativa alla caduta. Nel 68% dei casi questa è risultata accidentale (e solo nel 16% provocata da altri).

Ma il fatto ancora più interessante è che la dinamica della caduta è stata, per il 36% dei casi, laterale, considerata come la più pericolosa.

Questo dato stupisce perché è superiore, in aggregato, al 17% delle cadute frontali e ad un ulteriore 15% di generiche “cadute sulle mani”.

Il progetto ha sviluppato un protocollo di valutazione della capacità motoria della popolazione scolastica. Un semplice test di caduta all’indietro per valutare la capacità dello studente di adottare istintivamente meccanismi motori di protezione (protezione della testa piegando il collo, uso delle mani per attutire la caduta, rotazione delle anche, capacità di arrotondamento/esecuzione di una capovolta, piegamento del ginocchio).

Si è potuto misurare così quello che già conosce chiunque insegni attività motoria di qualsiasi tipo nelle scuole. E cioè che la capacità di assorbire una caduta è limitata perché non sono sviluppati adeguatamente gli schemi motori e la lateralità.

E’ stato così pensato un piccolo programma di allenamento per le cadute all’indietro, che ha permesso in breve tempo di ribaltare totalmente i risultati del test, portando la quasi totalità dei partecipanti all’adozione di un atteggiamento corretto in caso di caduta.

Un risultato di enorme portata, considerato che quasi un terzo degli incidenti dovuti a cadute avviene negli ambienti scolastici.

Tutto questo deve dare qualche spunto di riflessione sulla didattica delle ukemi nelle Arti Marziali. Una didattica che è fondamentale per tutte le età. 

L’inconsapevole contributo dato dalle Arti Marziali alla prevenzione, soprattutto nei corsi per bambini, dovrebbe essere meglio comunicato e valorizzato. Col gioco e senza traumi, grazie all’elasticità del loro corpo, al loro basso baricentro e alla relativa freschezza delle piste neurali, si costruiscono uomini e donne capaci di maggiore adattamento in caso di caduta accidentale. Ci verrebbe da dire: anche in senso metaforico.

Per i corsi rivolti agli adulti, quello delle ukemi è un punto che richiede metodologie didattiche capaci di colmare divari di ogni tipo. Raramente un adulto si affaccia ad un corso di Aikido in condizioni fisiche perfette.

Spesso deve essere in qualche modo “rimappato”; accompagnato cioè a recuperare mobilità, a sviluppare coordinazione, a imparare sequenze motorie nuove.

Il tutto facendo i conti con i limiti che ciascuno porta con sé.

Serve quindi una didattica e una metodologia che aiuti i principianti a sviluppare bene e rapidamente quei movimenti funzionali alle ukemi. Movimenti che, all’occorrenza, potranno servire per vivere l’eventuale esperienza di una caduta accidentale nel migliore dei modi.

La didattica delle ukemi (e delle proiezioni) è abbastanza collaudata, soprattutto per quanto riguarda l’allenamento della “geometria” del corpo.

Dal nostro punto di vista, tanto con i bambini quanto con gli adulti, si ottengono risultati rapidi e molto buoni con l’utilizzo delle fit-ball. Avvolgendosi frontalmente su una sfera di lattice morbida e deformabile, l’adulto accetta con meno timori l’idea di impattare sul tatami. Sentendosi in qualche modo protetto, abitua il corpo al contatto col tatami, ne sente la non pericolosità e quindi riesce a massimizzare la didattica tradizionale, comprendendola ed eseguendola più velocemente.

Anche lo stretching laterale, adagiandosi sulla fit-ball, agevola l’apprendimento della yoko-ukemi e l’aumento della fiducia nei confronti di un movimento che è oggettivamente non naturale -e, come si è visto, statisticamente problematico in caso di cadute accidentali.

In conclusione: la pratica di una disciplina marziale richiede al praticante la graduale progressione nell’apprendimento della ricezione delle tecniche. A una grammatica degli attacchi corrisponde una grammatica delle ukemi. 

Sarebbe dunque importante che la didattica delle ukemi avesse il coraggio di una costante ricerca, esattamente dovrebbe accadere per tutte le altre tecniche. 

Ci si smarcherebbe così dal rischio di limitarsi a didattiche estemporanee o più utili all’esibizionismo che alla pratica reale (pensiamo al “salto” dei compagni messi in ginocchio e ad altre forme più o meno appariscenti di allenamento delle proiezioni). Si eviterebbe di ammaccare il praticante che solo una volta ogni tanto svolge esercizi di cadute laterali o incrociate, facendosi male perché non è abituato.

E magari si troverebbero linguaggi nuovi che comunicherebbero meglio e più in fretta principi che anche il mondo della ricerca ha identificato come necessari per la vita di tutti i giorni.

Disclaimer: Foto di Henry & Co. da Pexel.com

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